Verso una diagnosi EEG di
depressione
GIOVANNA
REZZONI
NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 23 settembre
2023.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
I disturbi depressivi costituiscono una delle
più frequenti diagnosi psichiatriche in tutto il mondo, e l’esigenza di una
diagnosi precoce, per evitare l’innesco dei circoli viziosi in grado di peggiorare
il quadro in poco tempo, è sempre più pressante. Dopo l’epoca in cui si cercava
di individuare i primi segni dello stato depressivo con metodi psicologici,
affinando i questionari e ottenendo qualche risultato solo con pazienti già in
trattamento psicoterapico, si è passati agli anni della ricerca di biomarker
affidabili. Nel tempo sono stati individuati, specialmente con lo studio
EEGrafico, numerosi candidati marker che però, all’atto dell’impiego
clinico, hanno sempre rivelato limiti tali da sconsigliarne l’impiego. In
particolare, si è riscontrato che alcuni segni erano in realtà indicatori di alterazione
di processi cognitivi; disturbo che poteva riconoscere anche cause diverse
dalla depressione.
Masahiko Morita, Ryusei Otsu e Masahiro
Kawasaki hanno condotto uno studio pilota basato sull’analisi EEGrafica della fisiologia corticale, e hanno individuato
un’attività elettrica cerebrale correlata con la presenza di uno stato
depressivo in atto. Anche se si tratta di risultati preliminari, i tre autori
sperano di aver identificato un affidabile biomarker elettrico di
depressione, facile da registrare e, pertanto, potenzialmente utile per ottenere
un miglioramento nella precocità e nella precisione diagnostica.
(Morita
M., et al., Brainwave activities reflecting depressed mood: a pilot
study. Scientific Reports – Epub ahead of print doi: 10.1038/s41598-023-40582-y, September, 2023).
La provenienza degli autori è la seguente: Institute of Systems and Information Engineering,
University of Tsukuba, Tsukuba, Ibaraki (Giappone);
Graduate School of Systems and Information Engineering, University of Tsukuba,
Tsukuba, (Giappone).
La condizione depressiva, anche se oggi è pressoché
universalmente declinata secondo il paradigma dei disturbi del Manuale
Diagnostico Statistico dell’American Psychiatric Association (DSM-5), nasconde
l’insidia concettuale dell’ambiguità del termine depressione, che può
essere riferito a un sintomo, a una sindrome o a un’entità nosologica, come
affermava Lehmann già nel 1959. La categoria dei pazienti depressi è quantomai
eterogenea, non soltanto perché include affetti da disturbo depressivo
maggiore, disturbo depressivo da stress e fase depressiva dei due tipi
di disturbo bipolare, ma perché vi fanno parte gli affetti da tutte le forme di
patologia psichiatrica, neurologica e internistica che abbiano sviluppato il
funzionamento cerebrale depressivo. Almeno un episodio depressivo temporaneo,
anche se di breve durata, si può reperire nell’anamnesi di quasi tutti i
pazienti, perché accade nella vita di tutti, anche delle persone con la
migliore salute psichica e sempre allegre di natura, che si vada incontro a
periodi di umore triste, mancanza d’iniziativa e sofferenza morale.
Dunque, è proprio la categoria della depressione
come “classe” ad essere problematica, pertanto si è proposto di considerare nella
diagnostica la possibilità dell’uso dimensionale del concetto di
depressione, ogni volta che sia necessario, ossia in tutti i casi diversi da
quelli in cui un disturbo depressivo maggiore o una fase depressiva nel
bipolare costituiscano diagnosi esclusive.
Di fatto, fin dagli albori della psichiatria è
apparso evidente che l’umore depresso non in tutti si accompagnava a uno stato
di tristezza vitale, in cui l’individuo si sentiva svuotato di ogni interesse,
e di inibizione all’azione o di dolore morale; ma si tendeva a riportare
tutte le differenze alla gravità dello stato. La prima distinzione argomentata
in modo rigoroso fu introdotta da Sigmund Freud col saggio Lutto e
Melancolia, concepito prendendo le mosse dall’osservazione che, a causa di
un lutto, delle persone in buono stato di salute psichica possono sviluppare una
sintomatologia simile a quella della depressione, allora detta melancolia.
Le osservazioni proseguirono, e le distinzioni
cliniche portarono ben presto a individuare pazienti affetti da uno stato
depressivo profondo, statico, cronico caratterizzato da ideazione delirante, e
pazienti che avevano sviluppato sintomi depressivi a seguito di uno stato di
sofferenza affettivo-emozionale. Nel primo caso si parlava di depressione
psicotica, nel secondo caso di depressione nevrotica, seguendo il
paradigma consolidato dalla semeiotica psichiatrica di impronta psicodinamica, anche
se sussisteva una distinzione tra una forma che si supponeva ereditaria e
dovuta a un’anomalia cerebrale, detta depressione endogena, e una forma
dovuta a una reazione a condizioni protratte di sofferenza emotiva o condizioni
traumatiche per la psiche, definita depressione reattiva.
Per comprendere il modo in cui si è cercato di
interpretare la realtà clinica, può essere utile qualche cenno storico.
La melancolia è originariamente una
condizione patologica della medicina ippocratica e, se la sua definizione era
stata tramandata fra i medici dall’opera di Diocle di Caristo (intorno al 360 a.C.)
Pathos aitia therapeia (Malattia,
causa, cura), dedicata in gran parte ai disturbi psichici, la portata
concettuale del termine è evidente in un aforisma attribuito a Ippocrate che
suggerisce un criterio diagnostico: “se la paura o la depressione dura molto
tempo, questo è melancolico”[1]. In
altri termini, la melancolia, al di là dell’erronea ipotesi
patogenetica, corrisponde alla depressione endogena del ventesimo secolo. In
Diocle troviamo l’origine del termine nella spiegazione della presunta causa
dei sintomi: un addensarsi della bile nera (melaina kholē)
intorno al cuore devia le facoltà psichiche attribuite dai Greci a quest’organo[2]. Alcuni
pazienti melancolici presentavano disturbi intestinali, che oggi attribuiremmo
a somatizzazione di reazioni ansiose da stress, per le quali Diocle
prevedeva una specifica forma clinica: “Un tipo particolare di melancolia era
quello che interessava la cavità addominale[3] e che
poteva essere chiamata oltre che affezione melancolica anche affezione
flatulenta…”[4].
Troviamo la stessa concezione di melancolia in Prassagora di Kos, capo della scuola medica ippocratica
attivo nella seconda metà del IV secolo a.C.[5]
Dopo l’epoca ippocratica aurea, il termine melancolia
è stato impiegato con accezioni molto differenti, in quanto i sia pur limitati progressi
nelle conoscenze di fisiologia e medicina acquisiti durante il Medioevo avevano
escluso la validità delle congetture greche, così che durante il Rinascimento
la parola aveva preso a designare genericamente una sorta di “follia parziale”
senza disturbi dell’intelligenza, ma che non implicava necessariamente la
tristezza[6]. In
altre parole, tutte le categorie cliniche che nella seconda metà del Novecento
erano incluse fra i disturbi nevrotici o nevrosi o psiconevrosi emozionali. All’inizio
del XIX secolo Esquirol, nel tentativo di definire una sistematica
psicopatologica aderente alla propria esperienza e alle idee della nascente psichiatria
scientifica, proponeva il superamento del concetto tradizionale di “follie parziali”
sostituendolo con il termine monomania[7],
distinto in una forma caratterizzata da un elemento espansivo o “monomania
propriamente detta” e una “monomania triste” o lipemania.
Ma il modo in cui Esquirol e altri psichiatri
cercarono di definire queste categorie diagnostiche rimase vago, impreciso e
contraddittorio, tanto da ingenerare una grande confusione, e nella lipemania
si finì presto per includere di tutto, così che Delasiauve
dové intervenire escludendo da quel novero la confusione mentale e lo
stupore; Morel argomentò che non aveva giustificazione includere nella lipemania
la sindrome che poi diventerà il disturbo ossessivo-compulsivo; Kahlbaum
fu costretto a spiegare che lo stato catatonico non era una forma di
depressione, ma apparteneva a quel tipo di patologia che sarà poi
sistematizzato nelle forme di psicosi schizofrenica; Falret e Lasegue, infine, tolsero dalla categoria della “monomania
triste” i deliri cronici di persecuzione.
La caratterizzazione della depressione come stato
psicopatologico avverrà solo grazie agli studi che prendono le mosse dalle
pionieristiche descrizioni del disturbo bipolare che, prima di divenire la psicosi
maniaco-depressiva di Kraepelin (1899), era stato descritto da Baillarger
come follia a doppia forma (1854) e da Falret nello stesso anno col nome
di follia circolare.
Dalla fine del XIX secolo comincia lo studio
biologico dei disturbi dell’umore, con particolare attenzione all’ereditarietà
familiare che, nei decenni seguenti, diventerà studio della genetica della
depressione e della psicosi maniaco-depressiva. Intanto, si va affermando la
cultura psicopatologica psicoanalitica, e la maggior parte degli psichiatri, escludendo
la depressione del disturbo bipolare di livello psicotico, per decenni tende a
considerare un’eziopatogenesi psicogena all’origine della depressione e, in
generale, per quelli che si chiamavano i “due poli della reazione distimica”.
Dopo quell’epoca, giungiamo al tentativo
contemporaneo ancora in atto di rifondare la pratica clinica su basi neuroscientifiche,
prendendo le mosse dalla sicura individuazione di un fattore eziopatogenetico
importante nell’attivazione intensa e protratta nel tempo dei sistemi neuronici
dello stress, anche per chi non è geneticamente predisposto, e cercando
di integrare una parte considerevole dei dati emersi dagli studi sperimentali di
genetica, neurochimica, neurobiologia molecolare e neurofisiologia.
In definitiva, si può osservare che per la depressione,
come per le altre grandi categorie della psichiatria, si è scontato per decenni
un errore di impostazione: ritenere che la forma clinica fosse
rappresentativa di un’identità patologica, e che la ricerca sull’eziologia
e sulla patogenesi dovesse riferirsi in modo specifico alla configurazione
sintomatologica su cui si basava la diagnosi.
Ma, torniamo alle questioni più direttamente
inerenti allo studio qui recensito.
Masahiko Morita, Ryusei Otsu e Masahiro
Kawasaki hanno preso le mosse dalle ragioni che hanno condotto ad abbandonare i
marker bioelettrici di depressione individuati in precedenza: era stato
convincentemente dimostrato che quei caratteri dell’EEG riflettevano in realtà
un declino cognitivo indotto verosimilmente dalla depressione, e non il
funzionamento depressivo del cervello.
I tre ricercatori hanno rilevato che alcune onde di attività
elettrica cerebrale implicanti il phase resetting riflettono la presenza di umore depresso al
momento della rilevazione. La presenza di uno stato depressivo, secondo Morita e colleghi, si può facilmente monitorare misurando l’EEG
a riposo con gli occhi chiusi per un minuto con pochi elettrodi. A questo scopo
hanno istruito 10 partecipanti di età compresa tra i 18 e i 34 anni a
registrare il proprio EEG per 14-26 giorni.
All’esame dei tracciati, i ricercatori hanno
rilevato che gli indicatori di umore depresso erano correlati con la frequenza
di occorrenza del phase resetting
nell’EEG. Per la maggior parte dei partecipanti, la correlazione dei
coefficienti oscillava sistematicamente tra valori grandi positivi e valori
grandi negativi in rapporto alla frequenza EEG, ma le frequenze a cui erano
massimi o minimi differivano fra i partecipanti.
Gli autori concludono che, sebbene questo studio sia
ancora in fase iniziale e richieda ulteriore sperimentazione, i risultati possano
portare a biomarker innovativi per l’individuazione precoce della
depressione e possono contribuire a una migliore comprensione e a un miglior
trattamento dei disturbi depressivi.
Ad avviso di chi scrive, anche se l’individuazione inedita
di questa attività elettrica che sembra essere specifica è molto stimolante, è
prematuro parlare di biomarker, soprattutto perché l’esiguità del
campione priva di significatività il risultato ottenuto. Sarà necessario
ottenere dati su centinaia di volontari, con disegni sperimentali che mettano a
confronto i tracciati correlati all’umore depresso con profili EEGrafici di altre manifestazioni cliniche dei principali
disturbi mentali, oltre che con gli stati eutimici di persone in buona salute
psichica.
L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanna
Rezzoni
BM&L-23 settembre 2023
________________________________________________________________________________
La Società Nazionale
di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] W. H. S. Jones (testo a cura di),
Aforismi, VI 23, Cambridge Massachusetts – London 1931.
[2] Diocle, Pathos aitia therapeia,
(frammento 42 W), cit. in Vincenzo Di Benedetto, Il medico e la malattia –
la scienza di Ippocrate, p. 51, Einaudi, Torino 1986.
[3] Ma non era l’unico, ve ne erano
altri, come si evince dal frammento 43.5 W. di Pathos aitia therapeia.
[4] Diocle, Pathos aitia therapeia,
(frammento 42 W), cit. in Vincenzo Di Benedetto, op. cit., idem.
[5] Un’epoca posteriore a quella
dell’estensione della massima parte delle opere del grande Corpus Hippocraticum.
[6] Cfr. Henri Ey, P. Bernard Ch. Brisset, Manuale di Psichiatria, p. 267,
Masson Italia Editori, Milano 1983.
[7] Il suffisso -mania era inteso quale sinonimo generico di disturbo
psichico e non nella corretta accezione psichiatrica di disturbo eccitatorio
caratterizzato da altissimo tono dell’umore, tachipsichismo, attivazione
psicomotoria e aggressività fino alla furia pantoclastica.